Il tema del bambino vittima diretta di abusi e maltrattamenti è da tempo all’attenzione generale, in ambito psico-socio-sanitario come in quello giuridico-forense, mentre ancora poco conosciuta è la condizione del minore che sia “spettatore” di atti di violenza commessi fra le mura domestiche nei confronti di un familiare (nella maggior parte dei casi la madre, ma anche fratelli, sorelle, conviventi) e spesso sottovalutate sono le conseguenze che possono derivarne.
La cosiddetta “violenza assistita” è un fenomeno diffuso ed insidioso, di cui solo di recente si va acquisendo una consapevolezza sempre più incisiva e concreta.
Risale all’autunno scorso la novella legislativa (L. n. 119 del 15 ottobre 2013) che, recependo l’indicazione contenuta nella Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa dell’11 maggio2011, haintrodotto nel nostro sistema penale-processuale una disciplina più rigorosa nei confronti dell’autore di comportamenti violenti posti in essere non solo “in danno” di un minore di diciotto anni, ma anche “in sua presenza”.
L’intervento è rilevante, perché costituisce il riconoscimento normativo di quanto, secondo vari studi, sta emergendo: esporre un bambino alla visione o alla percezione di un maltrattamento fisico, verbale, psicologico, indirizzato non a lui, ma ad altro componente del nucleo familiare, a cui egli sia affettivamente legato, provoca turbamenti e squilibri psichici equivalenti a quelli derivanti da vessazioni direttamente subite. Dunque il minore, soggetto “fragile” per definizione, deve trovare adeguata tutela.
Vivere esperienze di abuso assistito, infatti, significa introiettare un senso di instabilità latente e di insicurezza pervasiva destinato ad incidere sulla costruzione personologica del bambino, a minare la sua capacità di interagire socialmente durante l’infanzia e nella successiva età adulta, a causare la trasmissione della violenza tra le generazioni.
Generalmente, accanto ad un minore “testimone”, esiste una madre vittima diretta di maltrattamenti, umiliazioni, soprusi.
Di fronte a questa realtà, complessa e articolata, in gran parte ancora sommersa, che investe problemi di natura sociale e culturale, l’intervento del legislatore è un passo rilevante, ma, da solo, non è risolutivo.
Occorre una presa di coscienza collettiva ed una assunzione di responsabilità che deve vedere coinvolte in primo luogo le donne, tutte, e ciascuna singolarmente.
Questa è la ragione del progetto, che si pone come obiettivo una azione di impulso concretamente orientata su vari livelli di intervento :
- sensibilizzazione culturale nei confronti del fenomeno e delle ripercussioni fisiche-psicologiche- emotive sul minore; condivisione di un linguaggio comune con diffusione di strumenti conoscitivi e buone prassi;
- analisi degli aspetti critici, mediante iniziative di approfondimento interdisciplinare, presso i singoli club, con il confronto e il coinvolgimento di realtà istituzionali ( Autorità Giudiziaria, Forze dell’Ordine, Servizi di neuropsichiatria infantile, ecc. ecc.) e del terzo settore, per consentire un dialogo su azioni ed obiettivi;
- supporto e sostegno a realtà locali territorialmente radicate (centri antiviolenza, case famiglia, operatori di primo soccorso, ecc.) per il potenziamento/miglioramento dell’efficacia degli interventi;
- verifica e restituzione sistematica a livello nazionale delle attività compiute dai club, con report/ricerca/pubblicazione sulle realizzazioni e sui relativi esiti ottenuti nel biennio di analisi;
- simposio nazionale dei risultati raggiunti, con prospettive di consolidamento delle iniziative intraprese.